Quando la vacanza lascia il segno

 

Che cos’è la fotoesposizione alla quale prestare attenzione?
Per fotoesposizione intendiamo i meccanismi difensivi che l’organismo mette in atto quando la pelle viene esposta ai raggi UVA e UVB, o più semplicemente quel piacevole atto ludico che è l’esposizione al sole, associata a un’idea di bellezza che non esisteva all’inizio del secolo, quando erano gli stessi costumi a “fotoproteggere” la pelle. Vestiti lunghi, ombrellini, cappelli assicuravano quel pallido candore che segnava il confine tra classi elevate e classi meno abbienti, dalla pelle “cotta” dal sole, abbronzata per necessità, non per piacere. La percezione della fotoesposizione oggi è radicalmente cambiata proprio da un punto di vista sociale: la persona che sfoggia un volto abbronzato a dicembre è andata come minimo ai Tropici…

 

Quali sono le componenti della pelle chiamate in causa dai raggi del sole?
Tutte le strutture cutanee vengono messe a dura prova dall’esposizione solare. Naturalmente, però, le più coinvolte sono le cosiddette cellule melanocitarie (melanociti), cioè quelle che hanno il compito di produrre la melanina (il pigmento che conferisce la colorazione scura alla pelle). Non bisogna dimenticare, infatti, che l’abbronzatura non è altro che una risposta difensiva della pelle, che si protegge letteralmente dai raggi UVA e UVB aumentando la produzione di melanina. Una cute abbronzata, in pratica, è una cute che si sta difendendo autonomamente. L’ombrello della melanina serve a impedire che i raggi ultravioletti danneggino le strutture cutanee sottostanti. Ciò significa che non ci potrebbe essere esposizione al sole in assenza della melanina.

 

Niente melanina, niente esposizione al sole: perché?
Pensiamo agli albini, che non producono melanina… sono di gran lunga i più esposti a malattie della pelle anche gravi, proprio perché non sono muniti dei meccanismi di protezione garantiti dall’iperproduzione di melanina. Le strutture principalmente interessate dalla fotoesposizione sono i melanociti, ma i raggi ultravioletti del sole interagiscono con tutte le strutture cutanee, anche con quelle sottostanti, cioè con le fibre di collagene, con le fibre reticolari, con le fibre elastiche, che vengono in parte “denaturate” quando ci si espone in modo intenso al sole.

 

La pelle, però, non è tutta uguale. Quali tipi di cute sono più esposti agli scherzi del sole e quali rischiano di subire i danni più pesanti?
Partiamo di nuovo dagli albini, con un “fototipo” 0 , ovvero, hanno “zero possibilità” di difendersi dai raggi solari. Una serie di studi ha portato alla classificazione di 4, più spesso 5 fototipi di pelle, mettendo ai due estremi gli albini nel fototipo 0 e i soggetti di razza negroide nel fototipo 5. In mezzo ci sono tutti gli altri fototipi, cioè tipi di pelle: il fototipo 4 avrà una pelle ancora molto scura e capelli neri, il fotipo 3 mantiene le caratteristiche mediterranee, con una carnagione che si abbronza e si difende bene, il fototipo 2 è già più normanno, e il fototipo 1 è molto chiaro, vicino all’albino. Più basso è il fototipo, maggiori sono i rischi che corre la pelle.

 

Dammi tre parole: sole,colore e… dolore! Pelle sotto il tiro incrociato dei raggi UVA e UVB tutta l’estate: Come reagisce a questa continua aggressione, oltre che con la produzione di melanina?
La pelle reagisce coinvolgendo anche le strutture che si trovano sotto l’epidermide, cioè il derma, che contiene fibre di collagenefibre reticolari e fibre elastiche e che subisce un progressivo impoverimento idrico, cioè perde buona parte delle sue riserve di acqua. Questo processo di “disidratazione” è fisiologico, perché si verifica normalmente con il passare degli anni per il naturale invecchiamento della pelle, ma la fotoesposizione gli impartisce una brusca accelerata. Sotto i colpi del sole, anche le fibre di collagene, che danno tonicità ed elasticità alla pelle, si denaturano, cioè perdono un po’ della loro funzionalità e le rughe diventano più accentuate.

 

Se, attraverso i pori, potessimo entrare dentro la pelle durante la fotoesposizione, che cosa vedremmo?
Vedremmo i melanociti che stanno facendo gli straordinari per produrre melanina e tutta una serie di altre cellule alacremente all’opera, come le cellule di Langerhans. Si tratta di vere e proprie sentinelle che si attivano quando la pelle viene aggredita: sono loro a lanciare l’allarme e sono loro ad attirare nella zona insultata una serie di altre cellule immunitarie, cioè difensive. Le prime ad arrivare sono le cellule che liberano istamina, la sostanza che, scatenando una cascata di eventi infiammatori (dall’arrossamento cutaneo, all’eritema solare, alla vasodilatazione), tenta di difendere la pelle. È chiaro, però, che se manca lo schermo della melanina, i raggi solaririescono a penetrare nel derma, arrivando a danneggiare in modo più o meno pesante le fibre di collagene.

 

Insomma: durante la fotoesposizione c’è un gran fermento sotto la nostra pelle!
Sì, pensiamo che persino i cheratinociti, cioè le cellule più superficiali della cute che noi tocchiamo, subiscono un processo di “appiattimento”, di assottigliamento e anche di perdita d’acqua. Basta osservare le persone che, per motivi professionali, sono costrette a continue e prolungate esposizioni al sole: dopo un po’ di anni, la loro pelle appare solcata da segni e rughette, può essere colpita da cheratosi solari, può comparire una pigmentazione anomala in alcune zone. È quello che si chiama “fotodanneggiamento“o “photoaging” della cute. Fortunatamente oggi la cultura della “fotoprotezione” sembra ormai consolidata anche in Italia.

 

Certo le donne ormai lo sanno: l’esposizione selvaggia fa male sul doppio fronte estetico e salutistico. Iniziamo in bellezza: rughe, macchie… quali sono i danni estetici più diffusi?
Il danno estetico principale è collegato all’assottigliamento cutaneo, che è anche visibile a occhio nudo dopo lunghi bagni solari. Mettiamo a confronto due tipi di cute: quella di una suora di clausura, che ha preso pochissimo sole, e quella di una signora che gode dei piaceri della vita e, quindi, anche dell’abbronzatura. A parità di fototipo e di età di queste due donne, la pelle della signora “godereccia” apparirà, esposizione dopo esposizione, più sottile, segnata da piccole rughe che si concentrano soprattutto nelle zone mimiche del volto – intorno agli occhi e nell’area delle labbra – e che sono dovute alla perdita di elasticità cutanea. Il danno successivo è quello della iperpigmentazione, cioè la pelle viene “macchiata” da una serie di “lentigo solari“. In questo caso, le responsabili non sono le fibre elastiche di collagene, ma sono i melanociti, che producono una melanina a forma di grossi granuli, incapace di distribuirsi in modo omogeneo.

 

Il fronte salute è altrettanto “caldo”… Ci sono disturbi della pelle da fotoesposizione?
Cloasmamelasma gravidico e cheratosi solari sono i danni principali alla salute della pelle legati alla fotoesposizione. Questi problemi possono essere anche accentuati da altri fattori concomitanti, come l’utilizzo di farmaci fotosensibilizzanti, come la pillola contraccettiva o alcuni antibiotici, o di certi cosmetici che reagiscono con il sole. Le fluttuazioni ormonali tipiche della gravidanza, poi, sono responsabili del melasma gravidico, con la comparsa di antiestetiche macchie molto scure ed estese. Le chiazze del cloasma, invece, di solito sono più superficiali e semplici da trattare.

 

È sempre il sole il responsabile del cosiddetto photoaging: di che si tratta?
Il photoaging è l’invecchiamento della cute collegato all’esposizione al sole. Torniamo alla nostra monaca di clausura e, questa volta, confrontiamola con una persona costretta a stare molto al sole per motivi professionali, come un marinaio. La sua cute parla da sola e denuncia un photoaging nettamente più marcato rispetto alla suora. In casi estremi, il volto del marinaio sarà solcato in modo così profondo e diffuso, da far parlare di “cute romboidale“, dove le rughe creano solchi a forma di rombo.

 

La fotoesposizione è negativa sempre e comunque?
No, anzi, bando alle demonizzazioni, anche la fotoesposizione ha i suoi vantaggi, oltre naturalmente a un grande piacere personale. A livello biochimico, i raggi ultravioletti stimolano la produzione di vitamina D, elemento indispensabile per il metabolismo delle ossa. Tanto è vero che una scarsa esposizione al sole può essere responsabile del rachitismo, oggi molto raro. Ben venga esporsi al sole ma, come dico alle mie pazienti, a patto che sia un’esposizione “responsabile”.

 

I trattamenti per donare nuova luce al viso
L’epidermide può subire segni “indelebili”, o c’è una soluzione a ogni problema?
Se parliamo di problemi estetici collegati all’esposizione al sole, come il cloasma o il melasma, i trattamenti medici attualmente disponibili sono in grado di portare ottimi risultati, soprattutto se trattati a uno stadio iniziale. Bisogna evitare, però, che il danno solare si accumuli nel tempo, cioè bisogna intervenire il più presto possibile.

 

Ci può fare una carrellata delle possibilità per cancellare i segni lasciati dal sole?
I trattamenti utilizzati per riparare un danno che la pelle ha subito a causa di una fotoesposizione cronica sono vari. I principali mezzi fisici sono i laser, sempre più utilizzati, e la dermoabrasione, alla quale si ricorre sempre meno perché più invasiva e cruenta. I laser più moderni, infatti, oggi sono molto sofisticati: mentre in passato si impiegavano i laser ablativi, come il Co2 o l’Herbium, ora si usano laser non ablativi, che agiscono stimolando i cheratinociti e anche il derma più profondo.

 

Quali sono, invece, i mezzi chimici?
I trattamenti chimici, che si effettuano dallo specialista dermatologo, sono attualmente più in voga rispetto ai mezzi fisici, perché sono molto meno invasivi. Sto parlando soprattutto dei peeling (dall’inglese to peel, sbucciare) che, grazie all’utilizzo di una o più sostanze applicate sulla pelle, sono in grado di rimuovere a fondo gli strati cutanei, stimolando il ricambio cellulare e la rigenerazione naturale della cute. Non richiedono un’esfoliazionemeccanica, perché la rimozione dello strato corneo avviene grazie a un processo chimico di distacco delle cellule morte. In base all’entità della loro azione, i peeling si distinguono in superficiali, medi e profondi, a seconda della sostanza utilizzata, della sua concentrazione e del tempo di applicazione.

 

Quali sono le sostanze utilizzate per i peeling?
La prima sostanza a essere utilizzata a scopo estetico per contrastate il photoaging è stata l’acido glicolico, ma negli ultimi anni le molecole si sono diversificate e oggi, per esempio, si usano anche l’acido piruvico, l’acido salicilico, l’acido retinoico, ultimamente anche l’acido mandelico e altri. Ci sono, poi, peeling ancora più “intensi”, che richiedono molta accortezza, come quelli effettuati con l’acido tricloroacetico.

 

Il noto acido ialuronico fa parte delle sostanze usate nei peeling?
No, l’acido ialuronico è una sostanza potente che viene utilizzata nella biorivitalizzazione cutanea, tecnica antiaging capace di arrivare laddove il peeling chimico non potrà mai arrivare: nel derma, la zona più profonda della pelle e anche quella in cui si trovano le sostanze più importanti per la bellezza e la giovinezza della pelle, cioè il collagene, le fibre elastiche, le fibre reticolari e l’acqua. L’acido ialuronico, infatti, si infiltra sottocute, con una serie di micropunture indolori, effettuate con aghi sottilissimi esattamente nei punti più danneggiati. Da quando esiste l’acido ialuronico, abbiamo un’arma formidabile in più per biorivitalizzare la pelle.

 

A cosa si deve tanta efficacia?
Al fatto che l’acido ialuronico è il precursore delle fibre di collagene e delle fibre elastiche, cioè di quelle strutture che vengono danneggiate dalla fotoesposizione e dal passare degli anni. Inoltre, questo acido ha una proprietà chimica eccellente: è in grado di legare, richiamare tantissima acqua intorno a sé, portando alla cute turgore, idratazione e giovinezza. Per idratare a fondo la cute non basta bere molto…

 

…Ci vogliono i famosi filler. Di che cosa si tratta?
Il filler è una sostanza utilizzata per “riempire”, per esempio una ruga, e che si utilizza dove la pelle ha subito un danno strutturale delle fibre di collagene e delle fibre elastiche. I filler sono costituiti da varie sostanze biocompatibili. Il primo a essere utilizzato in Italia è stato a base di collagene estratto da animali, oggi soppiantato da collageni di derivazione umana purificati, che non danno fenomeni di allergia o di intolleranza. Ma anche questi collageni stanno perdendo terreno a favore, ancora una volta, dell’acido ialuronico che, opportunamente modificato, oltre ad attirare acqua è in grado di riempire perfettamente le rughe.

 

I filler sono permanenti?
Ci sono tipi di filler semi-permanenti o addirittura permanenti, ma quello con l’acido ialuronico – completamente riassorbibile in pochi mesi – resta il migliore, perché tiene conto del fatto che le strutture cutanee si modificano nel tempo e le sostanze permanenti non possono assecondare questi cambiamenti, rivelandosi controproducenti proprio sul fronte estetico. L’acido ialuronico, d’altro canto, è la molecola ormai più utilizzata nelle tecniche di biorivitalizzazione cutanea. Iniettato nelle zone più danneggiate, stimola la rigenerazione delle strutture del derma, favorisce la produzione di collagene ed elastina, richiama acqua in quantità e protegge dai radicali liberi.

Fonte: www.esseredonnaonline.it


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